IL CAMBIAMENTO DELL’IMMIGRAZIONE NEGLI ULTIMI ANNI: UN’ANALISI SOCIALE ED ECONOMICA - Luigi Pinto

IL CAMBIAMENTO DELL’IMMIGRAZIONE NEGLI ULTIMI ANNI: UN’ANALISI SOCIALE ED ECONOMICA

8 Nov 2021 - Editoriali

IL CAMBIAMENTO DELL’IMMIGRAZIONE NEGLI ULTIMI ANNI: UN’ANALISI SOCIALE ED ECONOMICA

L’immigrazione è mutata nel tempo. Ho maturato, con l’esperienza degli anni, l’idea che si siano delineate con sempre maggior enfasi due macro aree distinte entro cui far rientrare questo complesso fenomeno.

Guerre e conflitti, come abbiamo potuto osservare nell’ultimo periodo, provocano ondate migratorie di persone che si allontanano dalla propria terra per diventare profughi o rifugiati.
Ci sono poi ragioni economiche che spingono le persone a raggiungere altri paesi, spesso appartenenti a quello che si definisce comunemente primo mondo. Quello che oggi, da una mia diretta esperienza, posso dire essere il flusso maggiore.
Trovo nella globalizzazione la principale spiegazione della crescita di questo fenomeno. Questa unificazione e interconnessione a diversi livelli (specie quello comunicativo e tecnologico) tra i paesi ha portato a un’inevitabile circolazione di informazioni che raggiunge ogni angolo del globo. Ciò che prima era visto da pochi, ora è alla portata di molti. La nostra televisione, i video e le immagini dei paesi sviluppati sono diventati virali anche in zone del secondo e terzo mondo.

Non cadiamo nell’errore di pensare di essere totalmente estranei a questo fenomeno perché, seppur in maniera estremamente diversa e molto più frivola, anche il nostro modo di sperimentare il mondo è cambiato. Viaggiare, ad esempio, ha assunto un diverso valore. Prima dell’era di internet i viaggi avevano un significato differente: visitare luoghi lontani (e nemmeno serviva cambiare continente, alle volte) era molto più simile all’esplorare di quanto non sia ora.
Oggi, mi si conceda, non c’è più la sensazione di scoprire qualcosa di nuovo. Abbiamo già visto tutto, anche solo attraverso uno smartphone.
Così, azzardando un parallelismo, anche l’idea di emigrare verso terre più promettenti era, un tempo, qualcosa di astratto, un po’ irreale e utopico. Oggi invece è ben visibile da uno schermo.

Ma cosa si trova, nella realtà, oltre quello schermo? Chi arriva qui, nell’El Dorado tanto ben presentato dalla tecnologia, che sogno ha comprato?
Iniziamo con l’analizzare il modo in cui gran parte degli immigrati arriva. Nella maggior parte dei casi, in maniera irregolare. Non per volontà, ben chiaro, quanto perché di fatto non c’è possibilità di entrare in maniera ordinaria e regolare, mancando di fondo una regolarizzazione. Chi arriva è quindi, burocraticamente, invisibile. Tentativo assai comune per uscire dall’ombra è quello di presentare una richiesta di asilo, di protezione umanitaria, cosa che rimane legittima solo per una percentuale di casi (chi ha effettivamente diritto allo status di rifugiato). Uno stallo che viene sovente protratto attraverso ricorsi, che possono portare a mesi, se non anni, di limbo. Per poi spesso concludersi con un nulla di fatto, per mancanza di reali presupposti.
E come può l’essere invisibili non diventare un ostacolo per un inserimento sociale, che rimane ad oggi uno dei problemi fondamentali della questione immigrazione?

Senza contare il peso aggiunto alla già radicata diffidenza verso lo straniero, dalla domanda: “e se poi ci portano via il lavoro?”.
Vi propongo una considerazione: i contratti (autotrasportatori, colf, operai agricoli) sono uguali per tutti. Un imprenditore che assume un dipendente nato a Biella e uno nato ad Accra, deve a entrambi lo stesso contratto, la stessa tutela, la stessa retribuzione (senza entrare, per il momento, nell’ampio quanto spinoso problema delle retribuzioni in nero). E ancora, domandiamoci: siamo certi che il carico di lavoro attualmente occupato da persone immigrate sarebbe agevolmente coperto da personale italiano?
Se è vero che il modo di vivere occidentale rappresenta per i paesi più poveri un El Dorado, non possiamo negare di essere vittima noi stessi del richiamo di questa affascinante sirena. Anche a noi la globalizzazione ha portato qualcosa di nuovo. Per dirla tutta, ci ha tolto qualcosa. Ci ha tolto la capacità di apprezzare ciò che già abbiamo, sostituendola con l’ingordigia di volere sempre di più, sempre meglio, sempre nuovo. Non siamo più abituati al sacrificio, non siamo più disposti ad avere un lavoro “umile”. Siamo svuotati di valori.
Chi arriva nel nostro paese è spesso giovane e ben disposto alla fatica, accetta che per ottenere anche poco serva il sudore della fronte.
Ecco, quindi, che l’immigrazione viene incontro a un effettivo problema economico: va a coprire quella parte, ampissima, di lavori che noi, popolo vecchio e viziato, non riusciamo o non volgiamo più fare. La nostra stessa visione del lavoro è offuscata dal benessere. Per chi ha rischiato la vita in una traversata via mare, cosa vuoi che sia ciò che per noi sembra essere un peso, fosse anche solo lavorare la terra o fare un turno di notte a scaricare bancali?

Mi sembra quindi ovvio, arrivati a questo punto della mia analisi, che idee come quelle di un rimpatrio collettivo e massiccio per risolvere la questione “immigrazione” siano piuttosto inattuabili. Da un lato infatti non va dimenticato quanto appena detto, ossia che gli immigrati costituiscono allo stato attuale una forza lavoro di cui non possiamo fare a meno. Dall’altro viene da chiedersi come potremmo mai fronteggiare uno sforzo economico tale, se si considera la spesa che servirebbe sostenere per procedere con questa operazione, vista la presenza di migliaia di irregolari in Italia (nel solo anno 2020 sono stati individuati 22785 immigrati irregolari – fonte Sole24Ore).

La soluzione, temo, è ancora lontana dalla nostra portata. Lo Stato, che dovrebbe essere l’entità preposta a risolvere problematiche di questo tipo, è assente o quanto meno non pronto a dare risposte logiche e concrete.

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